Marduk – “Heaven Shall Burn… When We Are Gathered” (1996)

Artist: Marduk
Title: Heaven Shall Burn… When We Are Gathered
Label: Osmose Productions
Year: 1996
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Summon The Darkness”
2. “Beyond The Grace Of God”
3. “Infernal Eternal”
4. “Glorification Of The Black God”
5. “Darkness It Shall Be”
6. “The Black Tormentor Of Satan”
7. “Dracul Va Domni Din Nou In Transilvania”
8. “Legion”

Quando saremo riuniti, il Paradiso intero dovrà bruciare; alla sola apparenza banale e forse puerile come del resto il fumettoso artwork dalle tinte violacee che provano a nascondere un mondo di riferimenti e citazioni, il titolo scippato in tributo al verso cruciale della “Dies Irae” di bathoriana memoria è in realtà espressione ineccepibile della spavalda mentalità combattiva messa in pratica dal comandante in capo Morgan Håkansson, la cui sicurezza di sé è genuinamente fondata innanzitutto sull’aver indovinato alla perfezione le figure delle quali circondarsi dopo gli scossoni in formazione susseguitisi nel seppur breve periodo di attività della sua creatura principale giunta all’inizio del 1996. Vero che “Opus Nocturne”, soltanto due anni prima, aveva portato in dote il batterismo impetuoso di Fredrik Andersson, membro a dir poco fondamentale ai fini dell’avanzata dei Marduk (e, in quanto a ritmi, del Black Metal svedese tutto) nella direzione imboccata sin dal suo ingresso; tuttavia è proprio con il quarto album che lo schema nella mente del chitarrista si completa permettendo ad un compositore già maturo oltremisura di far sbocciare i semi trapiantati nell’illustre opera terza datata 1994: alla mitraglia umana seduta dietro le pelli si accompagna la scelta sensibile dell’ubiquo Peter Tägtgren al mixer, in grado di restituirne l’aggressività e favorire la progressiva estremizzazione del sound -in linea con i Dark Funeral di “The Secrets Of The Black Arts”, debuttanti soltanto qualche mese prima- ben oltre quanto fosse possibile al predecessore Dan Swanö, altrettanto esperto ma dal background assai meno estremo.
Ciononostante, e questo è vero sia per i biografi incalliti sia per i semplici fan del four-piece scandinavo, “Heaven Shall Burn…” rimane soprattutto la prova del fuoco per l’appena entrato Legion, frontman dalla fisicità vocale e corporea impareggiabile su disco come dal vivo, nonché personalità strabordante attraverso la quale gli svedesi possono finalmente essere indicati senza esitazione come l’act più blasfemo e tritaossa del settore, in un’epoca storica in cui tale titolo contava ben più di quanto i diretti interessati sarebbero oggi, con venticinque anni di retrospettiva, disposti ad ammettere.

Il logo della band

La discografia anni novanta (l’aggettivo classica non può seriamente essere utilizzato per un monicker dalla simile costanza qualitativa) dei Marduk potrebbe essere rappresentata attraverso accoppiate di acclamati opus intervallate da singoli lavori criminalmente trascurati dai supporter e ciecamente ignorati dai detrattori: sebbene non sottovalutato allo stesso infimo livello dell’alieno debutto “Dark Endless” e soprattutto dello spartiacque La Grande Danse Macabre”, il capitolo che su full-length per la band apre la seconda metà del decennio ha comunque pagato cara la posizione di cuscinetto tra i due monoliti interpretati al microfono da Joakim Af Gravf ed i primi due terzi della celebre trilogia di sangue, fuoco e morte partita nel 1998. Come sempre la nomea di album minore risulta parecchio illogica, dato che “Heaven Shall Burn…” è sì un platter di natura per alcuni versi transitoria eppure caratterizzato da una definizione nei suoi numerosi contenuti mai così evidente nell’operato del gruppo fino a quel punto; tratto magari meno artisticamente avanzato in confronto allo stile totalizzante già sviluppato da Håkansson in fase di composizione, ma allo stesso tempo sorgente di una serie di istantanee nuove ed irripetute per lo squadrone di stanza a Norrköping, qui fotografato in una fase di metamorfosi niente affatto confusionaria – bensì ricca di sfaccettature differenti, atte a rendere la maggior parte della tracklist un ascolto al minimo interessante quanto obbligato ai discepoli del metallo nero.

La band

Ma non sono necessari paragrafi interi come quello appena letto per demolire l’ingiustamente scarsa considerazione verso il quarto full-length della compagine svedese: anzi, per quello basta e avanza il roboante sound design spremuto fuori dai pulsanti e dalle manopole degli Abyss Studios. A quel punto già lanciato in campo Black non soltanto in seguito ai vari e maggiormente celebrati Nord…” e The Secrets Of The Black Arts”, Tägtgren ricalca dai suoi pregressi servigi presso i maestri del filone svedese una batteria selvaggia, malmenata con perizia da un Andersson ora in grado di far male sul serio grazie all’esposizione di gran lunga superiore rispetto al passato di ciascun componente, siano essi i piatti ben delineati come la devastante cassa o il rullante non meno imperioso. Naturalmente il luminare sonoro dell’appartata Ludvika non dimentica di dare spazio anche al basso di B. War e alla chitarra del leader Morgan, entrambi rivestiti da un tono inedito, da qui in avanti rappresentativo e precisamente mantenuto sui prossimi dischi, che spazia dagli aspri alti ai ringhianti bassi senza perdere il proprio marchio distintivo, rimanendo omogeneo a prescindere dalle soluzioni adottate nei pezzi; e a proposito di scrittura, “Heaven Shall Burn…” vede Håkansson allora al suo massimo per quel che concerne la ricerca di strade che portino la band sempre più lontano dai canoni del genere, già sfruttati nei migliori modi possibili durante la creazione dei due capolavori precedenti. Il songwriter di riferimento vaga tra molteplici intuizioni talvolta generando curiosi episodi rimasti un unicum negli anni a venire, e talvolta concependo invece versioni embrionali ma assai esplicite di futuri trademark durati quanto una carriera; in “The Black Tormentor Of Satan” l’autobattezzatosi Evil in combutta col sodale B. War pare momentaneamente posseduto dagli spiriti degli allora vivi e vegeti Jon Nödtveidt e David Parland, per una splendido sconfinamento tutto al testosterone dei Marduk nelle speculari sonorità Melodic Black per cui la Svezia di metà anni ’90 è vera e propria terra promessa. Ad una tale rara seppur encomiabile divagazione sul tema fanno riflesso delle chiare preview di quanto verrà rilasciato nell’immediato avvenire: dalla tensione oltre ogni grazia di Dio che monta nell’opener al gusto dell’axeman per i riff dal sapore orchestrale viene innanzitutto palesato per la prima volta in un simile modo dalla visita di Musorgskij sulla grandiosa “Glorification Of The Black God”, esperimento oggi semplice negli intenti ma anch’esso di enorme impatto ed importanza sia negli scenari evocati poi dal gruppo in molteplici occasioni quanto in una delle letture che il genere avrebbe dato della musica classica digredita nel suo alveo; mentre “Dracul Va Domni Din Nou In Transilvania” è l’evidente preludio, nel testo vergato dal complice It come nell’andamento claudicante (altra prima volta in assoluto, nei fatti distantissima dai brani più cadenzati finora ascoltati grazie al taglio corposo, riverberato a ragnatela e quasi atmosferico dei cordofoni), agli inquietanti paesaggi notturni dominati da un certo Vlad Tepes e più ampiamente narrati nel giro di due anni.

Non possono infine mancare i dovuti capitoli a base di blast-beat e pennate da tendinite acuta dove a primeggiare è il feroce Legion, il quale evita ancora lo screaming forzatamente alto e rauco concentrandosi invece sulla vivida cattiveria della propria variegata prestazione, veicolata in ogni episodio da quelli che sembrano latrati animaleschi anziché urla ottenute da un’allenata ugola umana. Di certo non siamo ancora alla tangibile bestialità grondante dalle vocals di “Panzer Division Marduk”, tuttavia “Infernal Eternal”, “Darkness It Shall Be” come l’altrettanto belligerante finale della sua personale title-track posta in chiusura sono il sicuro frutto dell’aver saputo puntare sul cavallo giusto, ossia un one-trick pony che col tempo finirà ironicamente col limitare la creatività dei suoi compagni ma che merita tutto il riconoscimento ottenuto per ciò di sentito tra il 1996 ed il 1999.
Allo stesso modo, il maestoso “Heaven Shall Burn… When We Are Gathered” può anche essere considerato un semplice campionario di suggestioni portate a definitivo compimento soltanto nel mostruoso Nightwing” – tuttavia, non riconoscerlo a pieno diritto come l’inizio di un suono inconfondibile riproposto anche nel post-Tägtgren, di una line-up iconica e longeva quanto letale e di un’era di continui colpi andati a segno senza soste né prigionieri, significa non conoscere per nulla il lignaggio del leggendario blasone scandinavo: i Marduk nel 1996 erano già riuniti mentre il Paradiso andava in fiamme, ed i successivi a bruciare sarebbero stati prima i castelli transilvani e poi i campi di battaglia europei.

Michele “Ordog” Finelli

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